Linda Cottino, giornalista professionista e alpinista racconta nel suo ultimo libro la storia di grandi alpiniste di fine Ottocento: Una parete tutta per sé: le prime alpiniste – 7 storie vere

(Meta Brevoort, la prima grande esploratrice e pioniera sulla Meije nelle Alpi del Delfinato; Marie Paillon, la prima intellettuale della montagna e tra le prime a far cordata femminile con la fortissima Kathleen Richardson; le sorelle Pigeon, con una prima al Monte Rosa; Elizabeth Aubrey Le Blond, fondatrice del Ladies’ Alpine Club)

                                                              

Cosa ti ha ispirata a scrivere Una parete tutta per sé? C’è stato un momento particolare che ha acceso l’idea per questo libro?

Questo libro è frutto di un lavoro di ricerca storica iniziato anni fa. Se ha potuto concretizzarsi è anche grazie all’editore, che proponendomi di scrivere sulle pioniere dell’alpinismo mi ha in un certo senso costretta a tirare le somme per concentrarmi su alcune protagoniste.

Nel libro racconti storie di figure come Meta Brevoort ed Elizabeth Aubrey Le Blond. Cosa credi abbiano in comune queste donne, oltre alla passione per l’alpinismo?

Ciò che le accomuna è sicuramente l’appartenenza alla classe alta della società, il che significava disponibilità economica, istruzione, libertà di muoversi e di decidere in base alle proprie aspirazioni. Tutto ciò che alle donne del tempo di norma era negato.

Date le forti limitazioni sociali imposte al genere femminile, in che modo, secondo te, queste scalatrici hanno influenzato la percezione del ruolo delle donne?

Francamente non credo che abbiano avuto alcuna influenza. La loro era un’élite dell’élite. È vero che, per esempio, l’americana Fanny Bullock Workman si era fatta fotografare su un ghiacciaio del Karakorum brandendo un cartello che recitava: “Voto alle donne”; o che Elizabeth Le Blond aveva affermato di essere grata all’alpinismo per averla liberata dalle catene delle convenzioni sociali e si era anche espressa a favore delle Suffragette, ma sottolineando nel contempo la sua contrarietà verso ogni manifestazione rumorosa. Il Ladies’ Alpine Club, che proprio Le Blond aveva fondato, si guadagnò la stima dei colleghi alpinisti, ma in generale la percezione non cambiò.

Quanto pensi che l’alpinismo fosse per loro una scelta consapevole di emancipazione e quanto, invece, fosse semplicemente una passione a cui non volevano rinunciare?

Era soprattutto una grande passione, che in alcune fortificava la scelta di indipendenza.

Hai trovato dei collegamenti tra le storie delle pioniere alpiniste e i moderni movimenti di emancipazione femminile?

L’unica tra le pioniere a parlare di femminismo in modo esplicito fu Mary Paillon, che con un certo gusto racconta di “iniziative di disturbo” ideate da lei per essere ammessa alle riunioni del Club alpino francese.

Molte di queste alpiniste sono state “invisibili” per le cronache dell’epoca. Che difficoltà hai incontrato nel ricostruire le loro storie e trovare informazioni su di loro?

Invisibili lo sono tuttora, perché sotterrate da strati di oblio. Mentre all’epoca poteva accadere che le cronache se ne occupassero eccome! Pensa che, nel 1888, fu nominata alpinista dell’anno Kathy Richardson e il Times diede grande risalto alla notizia. Per la mia ricerca, la difficoltà maggiore è stata reperire e riconoscere gli scritti delle alpiniste, che spesso non sono firmati; le donne, infatti, essendo prive di status sociale, di rado si esponevano col proprio nome. Inoltre, le prime grandi scalatrici erano per lo più straniere, quindi si è trattato di tradurre tutto. In ogni caso, la lunga frequentazione di archivi e biblioteche, in particolare la Biblioteca Nazionale del Cai a Torino, mi ha consentito di comporre, almeno in parte, un mosaico affascinante di esperienze e di avventure.

In che modo credi che le imprese di queste pioniere possano parlare anche alle donne di oggi?

La storia parla di per sé, fa pensare, offre chiavi di lettura anche per la nostra realtà attuale. Azzera per un attimo la corsa in cui siamo immersi e ci fa riconoscere in quanto esseri umani. La grande freschezza e semplicità con cui le pioniere di cui racconto si dedicavano a questa strana attività sulle montagne può restituircene il gusto. E questo ci fa del bene.

Descrivi l’alpinismo di queste donne come una “dichiarazione di indipendenza”. Quali sono gli elementi di questo sport che, secondo te, hanno offerto alle alpiniste una via verso l’autodeterminazione?

Progettualità, tecnica di scalata, forza mentale, volontà, resilienza e, non ultima, una sana ambizione. Tutte caratteristiche che allora erano negate alle donne.

Quale delle figure che hai studiato per il libro ti ha lasciato l’impressione più forte, e perché?

Se devo indicarne una, Elizabeth Le Blond, che da anni mi affascina. Oltre ad aver eccelso in alpinismo, realizzando anche tante prime ascensioni e svolgendo un’intensa attività esplorativa, ha scritto molti libri, è stata una eccellente fotografa, la cui collezione è custodita all’Archivio Etnografico dell’Alta Engadina, ha fondato il Ladies’ Alpine Club e nella Prima guerra mondiale si è distinta per l’aiuto che ha portato alle truppe di montagna. Insomma una “grande”, benché sepolta sotto strati di oblio! Ma il mio cuore batte anche per Mary Paillon, la prima intellettuale della montagna, riconosciuta come tale per il suo lavoro e per i suoi scritti.

 Pensi che il contributo delle donne all’alpinismo sia oggi adeguatamente riconosciuto? Cosa pensi manchi ancora in termini di visibilità e riconoscimento?

Viviamo in un Occidente ancora libero dove, malgrado le difficoltà, le discriminazioni striscianti e una società costruita a misura d’uomo, le donne possono tracciare la propria strada. Piuttosto riformulerei la domanda: oggi che le alpiniste hanno sostanzialmente colmato il divario uomo-donna, sia in termini di difficoltà tecniche superate, sia di resistenza in condizioni estreme, qual è il contributo che possono dare all’alpinismo?