Gli insegnamenti delle Ande

Non è facile scrivere di un viaggio fatto a ridosso dell’epoca covid, quando poche limitazioni ci impedivano di viaggiare per il mondo, liberi e audaci. Era il 2 Maggio del 2019 quando m’imbarcai sul volo per Quito (Ecuador), e se ci ripenso adesso, sembra passata una vita. Ho impiegato 2 mesi per attraversare da nord a sud l’Ecuador e il Perù fino alla caotica capitale della Bolivia, La Paz.
È stato un viaggio in solitaria: niente agenzie, niente gruppi organizzati, (solo improvvisazione al potere). La mia esperienza ha trasudato solitudine e questo aspetto è stato una delle prove maggiori di tutto il viaggio.


Partivo fresca d’innamoramento, il povero cavaliere abbandonato sarebbe rimasto in Italia mentre io vivevo la mia epica avventura oltreoceano. Qualche giorno prima della partenza, un’amica mi manifestò tutta la sua stima per l’imminente viaggio lasciandosi scappare un “E quindi lui ti lascia andare da sola?”. Ero ancora in Italia, eppure il concetto di essere donna, impegnata in una relazione e desiderosa di viaggiare da sola, suonava già un po’ strano.
Avevo già viaggiato da sola nel rassicurante, evoluto e civile Canada; ma stavolta volevo ficcare il naso in luoghi culturalmente lontani dalla visione occidentale. Non da ultimo, ero spinta dal desiderio di vedere quelle montagne che in pochi altri luoghi al mondo raggiungono quote stellari, e perché no, conquistare la vetta di un 6000.


Perciò, zaino in spalla, mi avventurai per le strade dell’America Latina mantenendo a tutti i costi un approccio umile: ostelli, autobus, soldi contati, cibo quanto basta, e tanta, tanta strada a piedi. Col senno di poi, me la sarei potuta prendere più comoda, ma avevo l’impressione di offendere un continente che ti sbatte in faccia il proprio stato d’indigenza.
Ero una donna occidentale, indipendente e con i capelli corti, che viaggiava in un paese in cui le donne sembravano l’esatto opposto di me. Tra l’altro questa cosa dei capelli corti mi procurò un paio di episodi divertenti nei quali venni scambiata per un ragazzo. Al di là della comicità, era evidente che ero una mosca bianca.
Eppure, negli ostelli, incontravo tantissime ragazze occidentali in viaggio da sole, e mi immaginavo un fiume di giovani donne coraggiose che tutti i giorni partiva alla conquista del mondo. Certo un bellissimo segnale di emancipazione, ma eravamo un’élite.

In Ecuador imparai a muovere i primi passi da viaggiatrice in un continente dominato dall’improvvisazione. La mia mania di controllo fu subito messa alla prova, ma venne aiutata dalla mia ostinazione: ero affamata di conquistare chilometri e tappe, era una questione di orgoglio. Col passare delle settimane, il sommarsi degli imprevisti, dei disagi e della fatica, abbandonai lentamente questa sfida con me stessa. La resa e l’accettazione furono l’insegnamento più sudato di tutto il viaggio.
Iniziare il viaggio dall’Ecuador fu un’intuizione felice: piccolo da esplorare e colmo di vegetazione lussureggiante, mi permise di andare in solitaria scoperta delle sue bellezze senza troppa ansia. Ricordo la bellissima Ruta de las Cascadas percorsa in bicicletta, dove i sentieri si addentrano nella foresta pluviale al cospetto di cascate vertiginose. Puerto Lopez e la luce calda dell’alba mentre i pescatori radunavano le reti. Riobamba, con i suoi edifici in stile coloniale disposti a comporre una perfetta palette di azzurri e i suoi tramonti sul vulcano Chimborazo. Le farfalle giganti di Mindo, il colorato quartiere di Las Penas a Guayaquil…cartoline romantiche che riaffiorano alla mente.

Il primo giro di boa del viaggio fu l’approdo in Perù, un paese che percepii immediatamente come più complesso e più pericoloso.
Ero a Huaraz per rincorrere il miraggio della Cordillera Blanca. Avevo deciso di prendermi tutto il tempo necessario per sfruttare al massimo quel luogo e le sue montagne. Iniziai con un trekking leggero alla Laguna 69 per testare la quota, avevo il ciclo ma stavo alla grande: il mio corpo era immerso nella meraviglia delle montagne che mi circondavano. Quella che stavo ammirando era una natura incontaminata dalla bellezza spietata, ricordo ancora il suono spaventoso dei ghiacci che dalle cime lontane si sgretolavano al sole del mezzogiorno. L’urlo metallico di un ambiente inospitale ma terribilmente affascinante.

In seguito decisi di affrontare il trekking di Santa Cruz, 4 giorni in tenda in cammino per la Cordillera. Durante i 2 mesi di viaggio ho cercato continue occasioni per avvicinarmi in modo discreto alla popolazione locale. Mi sforzavo di parlare lo spagnolo, cercando pretesti per chiacchierare con le guide, chiedere delle loro vite, fare conversazione, e durante il Santa Cruz sfruttai l’occasione ogni volta che potevo. La nostra guida si chiamava Armando, ma ero certa che non fosse quello il suo vero nome.

Ad ogni modo mi agganciai a lui fin da subito nutrendo un’infantile speranza di poter diventare amici. Credo che intuì la mia propensione perché fui l’unica cliente a cui chiese un aiuto quando la nostra cuoca di campo iniziò a star male. Fu così che già dal secondo giorno smerciai tutte le mie scorte di medicinali, affidandomi all’ottimistica previsione che non ne avrei avuto bisogno nei giorni a venire, e nella semplicità di un dono incondizionato mi sentii importante. Per Armando ero diventata il tramite con il resto dei clienti, parlava a me in spagnolo ed io eventualmente traducevo in inglese al gruppo, non diventammo amici ma forse complici. Durante quei giorni intrisi di meraviglia, circondata dalla presenza di montagne come l’Alpamayo e l’Artesonraju, avvertii pienamente il significato profondo della felicità. Potevo respirarla, inalarla, sentirla entrare fresca e pulita come l’aria rarefatta alla quale mi ero già abituata. Nel moto perpetuo delle gambe presi la decisione di voler prolungare quello stato di grazia il più a lungo possibile, facendone uno stile di vita: fu lì che decisi di diventare Guida non appena fossi tornata a casa.

Nei successivi giorni trascorsi a Huaraz cercai di organizzare l’ascesa al El Pisco, ma una serie di fattori, compresa un’infezione gastro intestinale mi impedirono di realizzare quel sogno. Non era il momento, dovevo pazientare. Così nel frattempo riempii un paio di giornate a scalare alla falesia di Los Olivos, nella periferia della città.

Salutai con dispiacere Huaraz proseguendo il viaggio lungo le classiche mete del Perù fino ad approdare ad Arequipa. Edificata sul fondo di una conca desertica e circondata da vulcani, la Ciudad Blanca sarebbe stata la mia seconda chance per raggiungere la cima di un 6000.
Non avevo fretta di realizzare il mio sogno, così nel frattempo decisi di fare il trekking del Colca. Dopo alcuni giorni passati a rimbalzare da un’agenzia viaggi all’altra finalmente c’era un gruppo e c’era una data, la cima del Chachani era lì ad aspettarci ed io ero pronta.

Durante i 3 giorni di spedizione il mantra che le guide ci ripetevano di continuo era “piensa positivo”. Certo a primo acchito la banalità fatta a mantra. Eppure, nella lotta di resistenza a cui il fisico è sottoposto a quelle altitudini, è l’insegnamento più semplice ed efficace da tenersi a mente.
Nell’arrampicata ad esempio, esiste questo delicato equilibrio tra la concentrazione e l’azzardo. Se esageri nella concentrazione, sopraggiunge la paura che ti blocca, se esageri nell’azzardo rischi di metterti in pericolo. Il giusto equilibrio risiede in quel “piensa positivo”, ovvero, lasciati andare con lucidità. Aggiungerei che quando affronti qualcosa di nuovo e ti spingi al di là dei tuoi limiti, testa e cuore devono lavorare in sincrono.

Durante l’ascesa al Chachani la mia testa era concentrata sul respiro, mentre il mio cuore si aggrappava a quel pensiero positivo che è stato il ricordo delle persone che amo. Consapevole di essere estremamente fortunata nel vivere un’esperienza così unica come raggiungere la cima di un 6000, ad ogni passo passavo in rassegna l’immagine dei loro volti. Sapevo che erano con me, e a loro ho dedicato un istante di quella meravigliosa esperienza. Chachani nella lingua Quechua significa “donna”, e mi piace pensare che quella montagna abbia contribuito a un pezzettino della mia crescita personale. Quel traguardo segnò un secondo giro di boa del viaggio: la mia sete di conquista iniziava a calmarsi, e mentre i giorni passavano aumentava il senso di solitudine, la mancanza di qualcuno con cui condividere tutte quelle gioie e bellezze.

Cominciavo a percepire come una forzatura le successive tappe che mi ero prefissata, una sequenza di meravigliosi paesaggi e incontri che mai avrei potuto trasmettere realmente a qualcuno. Cominciavo a sentirmi sazia, perché già infinitamente grata di tutto ciò che avevo visto. In ultimo, cominciavo a sentirmi stanca, perché viaggiare in solitaria ti costringe a tenere sempre gli occhi aperti, l’attenzione vigile e i nervi tesi (specie ahimè se sei donna).
Alcune settimane dopo, e svariati chilometri in più, il mio viaggio si concluse a Cuzco. Dopo alcune notti insonni trascorse in preda all’irrequietezza di chi è sull’orlo di perdere la strada di casa, organizzai il volo del ritorno, mi regalai l’unico sontuoso pasto sotto i portici della capitale storica del Perù e la notte seguente dormii serena come un bambino.
In quei giorni imparai la resa.

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